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martedì, Ottobre 22, 2024
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Dio e Scienza

di Dario Zappalà

La ricerca di Dio è la costante che ha visto affannarsi in tutte le epoche l’intera umanità che per lo più vive con lo sguardo al cielo, ivi individuandone l’eterna dimora e da lassù attendendo segnali rassicuranti.
Tuttavia, l’immaginario collettivo viene sempre più frequentemente disatteso dalle scoperte scientifiche e dalla capacità dell’uomo di spingere la propria conoscenza oltre ogni limite intellettivo.
Gli stessi scienziati, grazie alle loro fervidi menti ed agli studi matematici, ritengono di potersi avvicinare sempre più alla verità assoluta, identificandola con formule inaccessibili ai comuni mortali non avvezzi a tali studi; eppure, non credo che sviluppino le loro teorie per confutare l’esistenza di un Dio creatore, ma raggiungono una presunta consapevolezza sulla sua inesistenza perché ritengono di poter postulare concetti che li spingono verso un ateismo non dimostrabile.
Infatti, ritengo che il vero problema di uno scienziato ateo sia quello di non attribuirsi limiti nella capacità di comprendere le leggi che reggono l’universo poiché se così fosse finirebbero di ricercarle.
Questa sembra essere pertanto la grande sfida fra Fede e Scienza: cosa delle due riesce a limitare l’altra?
Credere in Dio significa accettare che per quanto l’uomo possa scoprire sempre più leggi fisiche che spieghino la creazione ed il perché della vita, alla fine ci si può solo convincere che i processi vitali esistono e che oggi addirittura l’uomo ha persino la capacità di diventare opinabilmente “creatore” attraverso la manipolazione della conoscenza scientifica praticata nei laboratori; ma questo non può equivalere all’equazione creatore=dio. Sarebbe come avere scoperto la formula della Nutella e riprodurla in maniera più o meno simile, ma non si è Ferrero.
Ricercare è nella natura dell’uomo proprio perché chiunque si ponga delle domande sulla nostra origine, sul tempo e sulla nostra fragilità fisica, unita alla potenzialità intellettiva, non può che provare un grande senso di vuoto e di sconforto che necessita immediatamente di trovare un sostegno che sia motivo di vita. Ciò si raggiunge attraverso percorsi più o meno virtuosi che vengono indicati da svariate discipline, cui l’essere umano si aggrappa come ad una liana ogni qualvolta sta sprofondando in una palude.
Così, religione e filosofia diventano caposaldo delle relative conoscenze trascendentali fino a costituire la personale “fede” che conferisce ad ogni progetto umano l’idea di concretezza e finalità di ogni singola esistenza.
La trascendenza è infatti l’aspirazione di ogni essere umano per non sentirsi schiacciato alla terra dalla “banale” legge di gravità. L’uomo sa di poter volare con i potenti mezzi che la scienza gli mette a disposizione, ma nella migliore delle ipotesi riesce ad abbreviare gli spazi o guadagnare più benefici ben consapevole di non potere guadagnare il “tempo”.
Quest’ultimo ci sovrasta e ci rende limitati facendoci percepire la caducità del tutto; se tutto non avesse fine, noi non avremmo neanche avuto inizio.
Ecco allora la ricerca spasmodica di dare un senso alla vita, perché non può essere inutile e vana l’esistenza se nei millenni ha prodotto conoscenza, progresso, benessere, civiltà e scoperte scientifiche dai risvolti pratici ma anche violenza, oppressione e morte violenta; è segno che l’uomo ha delle potenzialità che lo rendono simile a un dio che ha solo la libera facoltà di essere benevolo o malevolo in base alle finalità che intende perpetrare nel corso della sua esistenza.
E’ quindi la trascendenza che riesce ad armonizzarci con il cosmo e quindi con tutto il creato, indipendentemente da chi o cosa l’abbia creato: in fondo, su cos’altro possiamo poggiare la nostra integrità psicofisica?
Però, questa trascendenza non dobbiamo solo immaginarla come un estraniarsi dal mondo per vivere con la testa per aria: le persone, gli affetti, gli esseri viventi e tutto ciò che attorno a noi rappresenta la vita possono celare o manifestare progetti concreti che quando riscopriamo o ci affascinano non esitiamo a definire “divini”.
Così può accadere che una persona che decide di starci accanato diventi il nostro angelo custode nostro malgrado e riempia la nostra vita; ma anche la fine di una storia può essere preludio ad una condizione di crescita intellettiva e spirituale ma non perché quella precedente sia stata inutile o sbagliata. Bisogna sapere accogliere ed elaborare tutto perché su questa terra non potremo mai esercitare il male o il bene assoluto in quanto non è nostra prerogativa; possiamo sviluppare la trascendenza.
Se però intendiamo credere al male e al bene assoluto, dobbiamo necessariamente puntare altri obiettivi che non sono certamente umani.
La scienza continui a cercare le sue equazioni, ma se lo scienziato Antonino Zichichi ha sentito l’esigenza di scrivere il libro “Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo”, attribuendo ad un creatore supremo la paternità della perfezione delle leggi della natura, ed Albert Einstein ebbe a dire “la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca” ed anche “due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana; della prima non sono sicuro!” vuol dire che ancora oggi la scienza non riesce a compiere quel grande salto verso la conoscenza assoluta che possa soppiantare la fede.
Forse, quel simbolico frutto della conoscenza cui attinse Eva offrendone ad Adamo ha condotto all’infelicità e senza forse, alla luce delle migliaia di anni trascorsi da quando fu “ispirato” il Vecchio Testamento, epoca in cui di certo le conoscenze scientifiche erano molto più limitate, chi individuò in quella trasgressione l’origine del malessere fisico e interiore dell’essere umano su questa terra non si limitò solo a profetizzare ma ricevette un’ispirazione talmente certa da essere inconfutabile.
Prometeo, prudentemente incatenato dai greci perché rubò il sacro fuoco a Efesto e la sapienza ad Atena, viene scatenato dal modello antropocentrico e per superare ciò, secondo Heidegger, occorre trattare la natura come un fine non come un mezzo.
L’etica della responsabilità risiede nella conoscenza e quindi nella prevedibilità degli effetti della tecnica (Weber), evitando evitando così che l’etica stessa risieda nei suoi risultati piuttosto che nell’agire.
Perseguire i progetti scientifici per gratificazione comporta una morale che non deve disciplinare il modo in cui renderci felici ma come scrive Kant – come renderci degni della felicità.
La politica occupa il vuoto che lascia il senso religioso ed etico della vita risolvendosi in un diritto formale in cui la libertà diventa solo “assenza di impedimento” (Hobbes).
Per il cristianesimo, se la realizzazione del bene riguarda la vita individuale, i problemi dell’etica non coincidono più con quelli della politica e perciò l’etica si raccoglie nell’interiorità dell’anima, dove regola l’intenzione dell’azione individuale, lasciando alla politica la gestione degli effetti delle azioni che non sono più di competenza morale.
Per Galimberti (L’Etica del viandante), limitando la sfera etica alla correttezza della coscienza e alla sua buona intenzione, anche se le azioni hanno conseguenze disastrose, all’individuo che non ne aveva coscienza o intenzione nulla sarebbe moralmente imputabile (“perdona loro perché non sanno quello che fanno”).
Etica e religione sono i contrappesi che bilanciano la dicotomia tra scienza e moralità.

Il dottore Dario Zappalà
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