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martedì, Ottobre 22, 2024
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Immigrazione e salute

di Dario Zappalà

Un numero sempre più crescente di individui fa richiesta di asilo politico in un paese europeo ed oggi, solo in Italia, i cittadini stranieri superano i cinque milioni, pari al 9% circa della popolazione.
Fra questi, la maggior parte è costituita da migranti che fuggono dai loro paesi d’origine.
Da un punto di vista pratico, gli aspetti più rilevanti dell’enorme flusso migratorio sia all’interno sia verso lo stesso “vecchio continente” sono certamente quelli di tipo sociale, culturale e soprattutto sanitario.
Quest’ultimo è l’aspetto sul quale porrò la mia attenzione per ovvie ragioni professionali e quindi di competenza.
Innanzitutto, vanno sfatati alcuni preconcetti: nell’immaginario collettivo, l’immigrato è una sorta di nuovo “untore” di manzoniana memoria che va bonificato perché causa di pericolosità sanitaria.
Il vero problema è quello culturale da parte di chi accoglie gli immigrati poiché deve sapersi occupare della loro integrazione e soprattutto della gestione del loro profilo psicologico, posto che la maggior parte di essi ha vissuto situazioni drammatiche (stupri, violenze, morti non accidentali di loro congiunti) che incidono severamente sull’equilibrio psicofisico dell’individuo.
Con ciò deve intendersi anche una sorta di educazione alla salute e alla prevenzione che consenta una loro piena integrazione in un nuovo contesto socio-sanitario, senza ovviamente discriminare le origini etniche, culturali e religiose ma consentendo un adeguamento alle precipue condizioni sociali onde mantenere lo standard della situazione igienico-sanitaria dei paesi accoglienti. Si tratta dunque di innescare un’ambivalenza che consenta di tutelare la salute sia di chi ospita sia dell’ospitato.
Tuttavia, è innegabile come in Europa ed in particolar modo in Italia si sia assistito negli ultimi decenni ad un notevole incremento di malattie infettive che un tempo consideravamo debellate sia per raggiunti nuovi standard di qualità igienico-sanitari sia per il rilevante successo delle vaccinazioni obbligatorie che avevano azzerato svariate epidemie un tempo persino letali.
Una delle patologie più rilevanti che ha ripreso quota in Italia da un punto di vista statistico è certamente la tubercolosi anche se va detto come, proprio grazie a quel processo virtuoso di cultura dell’accoglienza e dell’integrazione socio-sanitaria, i casi rispetto a un recente passato siano nettamente in decremento. Eppure, nel mondo la tubercolosi resta ancora la malattia infettiva che miete più vittime – oltre 1,5 milioni l’anno – sebbene siano trascorsi ben 135 anni dalla scoperta del suo bacillo patogeno da parte del medico tedesco Robert Koch.
Nel caso del migrante, il rischio di riattivazione dell’infezione è più elevato a causa di una serie di fattori fra i quali condizioni di vita (denutrizione o cattiva nutrizione, scarsa igiene), di lavoro e di alloggio (eccessiva permanenza in ambienti chiusi, sovraffollati e scarsamente arieggiati e illuminati)
Non a caso, l’incidenza della malattia al momento dell’arrivo in Italia (agli sbarchi per esempio) è molto bassa e tende ad aumentare sino a pareggiare l’incidenza nella popolazione generale italiana dopo alcuni anni di permanenza in Italia. È necessario quindi che la vera attenzione sia posta nel modificare quei determinanti di salute come le condizioni abitative, di accoglienza e di lavoro che sembrano essere il vero fattore cruciale per consentire agli immigrati di mantenere il proprio stato di salute.
Di converso, agevolare l’orientamento dello straniero affetto verso gli opportuni percorsi di diagnosi e cura, assicurando la presa in carico ed evitando la stigmatizzazione, consentirebbe di circoscrivere eventuali focolai infettivi, a beneficio della salute pubblica.
Altra malattia infettiva devastante e degna di nota è certamente l’AIDS.
Molti degli immigrati che transitano sul suolo italiano provengono da paesi nei quali l’infezione continua ad avere un’elevata incidenza (Sud-Africa, India, Est-Europa…), ma la peculiarità di trasmissione di detta malattia non rappresenta un pericolo diretto per la popolazione autoctona; sono infatti i comportamenti errati che espongono al rischio d’infezione e di contagio dai sieropositivi.
Più congruo sarebbe porre l’attenzione sull’educazione socio-sanitaria nei confronti della popolazione in generale – straniera o italiana – al fine praticare comportamenti corretti utili alla prevenzione dal contagio stesso.
Scabbia e altre infestazioni cutanee costituiscono poi malattie di banale riscontro, tant’è che persino l’OMS fatica a fornire stime sulla loro incidenza. Si tratta di una malattia a diffusione globale, presente in tutti i continenti e alimentata da precarie condizioni di vita e scarsa igiene. E’ tipica delle fasce sociali svantaggiate, degli individui senza fissa dimora, delle persone con gravi disabilità psichiatriche e di comunità chiuse proprio perché, anche in questo caso, la scarsa igiene personale e il sovraffollamento abitativo costituiscono elevati fattori di rischio per il contagio.
Tuttavia, come espresso in premessa alla presente trattazione, la percezione dell’opinione pubblica in merito al contagio infettivo è quella di una “pericolosità sanitaria” da parte dell’immigrato ed in particolare di chi “sbarca”.
Infine, voglio citare l’ultimo spauracchio dell’umanità in tema di malattie infettive contagiose: Ebola.
Trattasi di malattia letale che continua a falcidiare alcune popolazioni dell’Africa occidentale, la cui incubazione è di circa tre settimane ed il cui esito è la morte o la guarigione. Pertanto, considerando che i flussi migratori sono molto travagliati e richiedono a volte mesi prima che per esempio giungano in Italia, gli eventuali individui colpiti sarebbero già deceduti o guariti. Ad oggi, gli unici casi di individui italiani infettatisi del virus Ebola sono quelli di operatori in missione evacuati in Italia e tutti esitati in guarigione completa.
Pertanto, volendo sfatare i luoghi comuni sugli immigrati e gli extracomunitari dobbiamo anche evitare di incorrere in un altro errore concettuale che è implicito nell’evocata accezione “politicamente corretta” di “tolleranza”.
La tolleranza è un concetto spesso ipocritamente riferito nei confronti dello straniero ma che denota, per il solo fatto di esprimerla, una forma recondita di xenofobia. Ritengo che manchi una cultura di fondo, nella nostra società, che dovremmo definire anche civiltà, sul vero senso di appartenenza alla specie umana, che pertanto non dovrebbe prevedere discriminazioni.
Evocare la tolleranza è un implicito concetto di sopportazione forzata che però in questi termini sarebbe estendibile, oltre che allo straniero, soprattutto all’individuo “fastidioso” della porta o dell’auto accanto, indipendentemente da razza e colore; per cui si arriva anche a dover tollerare semplicemente il proprio prossimo, sebbene connazionale.
È dunque la dignità umana, resa manifesta dal comportamento civile e dall’educazione al rispetto del prossimo, che permette ad ogni individuo di accettare ed essere accettati dagli altri senza remore sulle commistioni culturali.
L’animo umano è molto strano: quando ritiene di poter trarre giovamento dal prossimo, anche se straniero, abbandona i pensieri xenofobi; quando invece emotivamente coinvolto nella sensazione che lo straniero oltre ad essere un invasore possa anche essere latore di gravi malattie infettive, senza neanche conoscere la realtà dei fatti, manifesta un personale odio che, corroborato dalle spinte emotive aggreganti di pseudo pensatori razzisti, arriva a sfociare nella violenza.
Paradossalmente, il vero problema dell’uomo è la sua “corticalità”, perché il cervello umano presenta una struttura sottocorticale più antica e ancestrale che costituisce quella parte funzionale che ci rende più simili al regno animale,
predisponendo l’individuo alle reazioni emotive istintuali più comuni che seguono le leggi naturali dell’universo; purtroppo fra queste c’è pure la violenza e la sessualità sfrenata.
E’ quindi fondamentale continuare sempre ad educare ogni singolo individuo ad una maggiore corticalità pensante per instillare sin dalla tenera età, soprattutto con l’esempio, il senso del rispetto del prossimo e la disciplina; le istituzioni tradizionalmente preposte a rendere tale servizio all’umanità stessa sono la famiglia e la scuola e queste non solo non devo abdicare al nobile ruolo istituzionale ma non devono nemmeno essere abbandonate da ogni singolo stato sovrano che abbia a cuore l’affermazione della civiltà intesa come livello di cultura e progresso sociale e spirituale di un popolo.
Piace infine ricordare i primi tre articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani redatta dalle Nazioni Unite dopo le devastazioni della II guerra mondiale:
Articolo 1:
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo 2:
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Articolo 3:
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
In conclusione, la globalizzazione non può arroccarsi su principi soltanto economici a gestione oligarchica ma deve seriamente occuparsi della popolazione mondiale con particolare attenzione alla salute pubblica specie dei paesi più poveri ridistribuendo le risorse in modo equo e abbracciando i sani principi della solidarietà umana.
La vera globalizzazione deve essere il bene di tutti e non la ricchezza di pochi.

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